Nell’ultimo secolo l’industria alimentare ha creato un acceleratore di sapore e il dado è entrato nelle dispense di tutte le case d’Italia. Ma c’è chi ha saputo trasformare un’idea industriale in una preparazione naturale.
IL DADO TRUCCATO
È inutile che facciate i vaghi. O voi stessi o la mamma o la zia e perfino la nonna, il dado in qualche ricetta lo utilizzano eccome. Mi riferisco al dado industriale, quello nato alla fine di due secoli fa e diffuso in Italia attorno agli anni Venti, perché il dado naturale, l’estratto di carne, il fondo concentrato, erano esplorazioni da chef più che da casalinghe, le quali, peraltro, non praticavano la fretta attuale e se dovevano servirsi di un brodo mettevano in casseruola carne o verdure con abbondante pazienza.
Eppure anche mia nonna, cuoca sopraffina che spignattava al ritmo della cucina economica alimentata a legna, conservava nella porta del frigorifero i terrificanti cubetti di dado e, alla bisogna, ne gettava un paio nell’acqua in cui andava a cuocere il magatello per il vitello tonnato. La posso comprendere però, come tutte le sue coscritte. Lei, donna dei primissimi anni del XX secolo, che aveva passato due guerre, la Spagnola, la fame, le tessere annonarie, il razionamento dei beni, si era innamorata delle lusinghe della pubblicità che, dalla fine degli anni Cinquanta, inneggiavano all’abbondanza e a un futuro di benessere fatto di rapidi consumi di massa disponibili per tutti. E per questo, quando riceveva ospiti di riguardo, si ritrovava a mettere in tavola qualche fetta di prosciutto cotto, prodotto industriale inventato nel dopoguerra, quando i dieci antipasti cucinati a mano con le prelibatezze dell’orto, del bosco, del fiume e della stalla, non ne avrebbero di certo fatta sentire la mancanza. Per lo stesso motivo in campagna andavano forte la maionese in tubetto, la carne in scatola, la pasta secca confezionata, con in sovraprezzo la giustificazione economica: in nessuna maniera quegli stessi preparati avrebbero potuto costare quelle cifre irrisorie se cucinati a partire dalle materie prime disponibili in casa. E infatti nei supermercati non vendevano cibo, ma succedanei, come siamo giunti a comprendere solamente un secolo più tardi.
Ma se mia nonna utilizzava il dado con quel misto di vergogna per il passato di stenti e di orgoglio per l’avvenuta emancipazione, mi sono spesso chiesto come fosse possibile che mia mamma e le sue amiche, donne realizzate nel lavoro, nella vita e nella famiglia e, a quanto ricordo, cuoche appassionate che avevano fatto della cucina non un obbligo quotidiano ma un raffinato argomento di conversazione e di soddisfazione, nel pieno degli anni Settanta, riportassero nei loro ricettari segreti l’utilizzo del dado dell’industria accanto a fagiani e lepri selvatiche, arrosti di buoi nutriti per anni con amore a cereali tradizionali, agnolotti composti con carni di quattro diverse provenienze. Credo facesse parte di quel moto di ribellione di quelle donne rispetto alla generazione che le aveva precedute. Stavano dimostrando di potersi occupare di sé stesse oltre che dei figli, e anche in cucina spaziavano verso ricette contemporanee, etniche, di fantasia, affermando la propria personalità ma anche dimostrando di cavarsela velocemente ai fornelli e di potersi quindi ritagliare una propria vita oltre agli obblighi casalinghi. E il dado era un viatico verso la velocità. Ma, con intelligenza, lo adoperavano in maniera personalizzata, “hakerandolo” come noi aggi facciamo con i mobili dell’Ikea. Da qui l’utilizzo nella rosolatura dell’arrosto, il dado di pollo nella cottura al forno del pesce, sminuzzato sulle uova, in polvere per condire un risotto, insaporire un sugo, arricchire un pasticcio. La verità è che, senza saperlo, stavano drogando le nostre papille gustative ad amare, oltre il lecito, il salato e l’umami, come facevano i cuochi di corte nel Settecento, che terminavano qualsiasi ricetta vitaminizzandola con una montagna di rossi d’uovo, parmigiano, midollo e burro a profusione. Non so i nobili del secolo dei Lumi, ma noi ci abbiamo messo anni a svezzarci da quei sapori che, di fatto, rendevano ottusi e omologati i sapori di qualsiasi preparazione.
Le nostre mamme non utilizzavano il dado al posto del brodo, ma per spingere l’acceleratore sul sapore. E così inconsciamente drogavano i nostri sensi come al ristorante cinese. Perché nel dado industriale carne, pesce o verdure sono la minima parte, mente oltre il 60% è costituito da sale, ben oltre il consumo giornaliero consigliato, e il 10-15% da glutammato di sodio che, oltre a causare una serie di problemi di salute, ha il pessimo vizio di rendere identico qualsiasi sapore, dando ai cibi quel gusto “salatino”, umami, che corrisponde al miscelare qualsiasi cibo con il 50% di parmigiano reggiano, che è appunto l’apportatore di umami di casa nostra. Pensate anche a un ottimo parmigiano. Quando sia presente in tutte le portate, alla fine i sapori saranno un po’ tutti identici, ma soprattutto, si svilupperà una dipendenza, una ricerca di quel preciso sapore. Ora immaginate di fare la stessa cosa con il grana padano peggiore della grande distribuzione. Anche quelli che avevano salutato con un eccesso di salivazione e un sonoro “slurp” l’idea del parmigiano sarebbero meno entusiasti. Poi provate a pensare di fare la medesima cosa con le croste vecchie di tre mesi di un formaggio industriale del discount. Ancora meno allettante. Bene. Il dado industriale è peggio di tutto questo. E’ solo chimica: sale e glutammato. Il resto è passato di lì per sbaglio. Giusto per completezza di informazione riporto il fatto che il gusto “classico” del dado più venduto in Italia, il più utilizzato per il risotto nella maggior parte delle case del nostro Paese, non contiene un solo grammo di carne. Se proverete a far bollire delle bucce di patata con una cipolla, lasciarle riposare nel brodo per 1 giorno, riportarle a bollore e salarle, scoprirete qual è il gusto del brodo di carne che credete di mangiare da tempo. Anzi, quello prodotto sciogliendo il dado industriale è molto peggio.
TUTTO FA BRODO
Ma, si sa, il tempo è tiranno, e “per fare un buon brodo ci vanno ore”. In realtà questa affermazione è completamente falsa. Ho studiato per cinque anni il tema del brodo. Ho letto i ricettari dei più grandi cuochi attivi in Europa tra Settecento e Ottocento, che dedicavano ai brodi decine di pagine, ma che si stavano industriando anche nella maniera di conservarli, concentrati o estratti, per accelerare i tempi della cucina. E mi sono reso conto di un errore di fondo. Ci va molto tempo per ottenere un brodo saporito se si parte da pezzi interi e molta acqua ma se si sminuzzano verdure, pesce o carne e li si mette prima a tostare in pentola e poi si ricopre poi la poltiglia con poco ghiaccio o acqua fredda, in quindici minuti dalla ripresa del bollore, il brodo è fatto. L’idea mi venne in Ungheria, in un mercato al confine con l’Austria, circa quindici anni fa. Non capivo una sola parola di quella lingua, considerata tra le più difficili del mondo, e passavo il tempo al mercato, cercando di rubare a gesti i segreti delle pittoresche contadine che affollavano gli stalli in maniera energica e disordinata. Uno dei prodotti più venduti in piena estate era contenuto all’interno di barattoli di vetro trasparente con etichetta vergata a mano: si trattava del dado vegetale umido, crudo, fatto in casa frullando le verdure di stagione, aggiungendo un po’ di sale e, scoprii col tempo, addizionando una generosa cucchiaiata di polvere conservante sulla sommità della preparazione. Le simpatiche vecchine mi raccomandavano infatti di gettare il primo strato del prodotto prima di adoperarlo. Non voglio sapere cosa utilizzassero, visto che nel fu-impero sovietico ci andavano pesanti con le sostanze tossiche in campo alimentare, ma il risultato e la praticità d’utilizzo di quel dado umido erano ottimi.
Abbiamo trovato per Dispensa chi oggi fa le cose esattamente come quelle vecchine ungheresi, ma con un po’ di sapienza e di etica in più. Solo verdure biologiche raccolte al giusto grado di maturazione, lavorate fresche, sale, erbe aromatiche e, per aiutare la conservazione e il sapore al tempo stesso, non una polverina magica ma il prezioso vero Aceto Balsamico Tradizionale di Modena. Un vero dado Triple “A”. Vale la pena di provare a recuperare il vezzo delle mamme, le ricette della nonna, con un ingrediente di una volta, uno dei pochi esempi di prodotti che, a differenza di ciò che accade comunemente, si sono ispirati a un successo industriale per mettere a punto una preparazione naturale che ne conservasse il contenuto di servizio ma senza compromessi su sapore e salubrità. Da oggi non dovrete più vergognarvi se, per pigrizia, tralascerete la preparazione del brodo o aggiungerete un cucchiaino di dado al vostro arrosto.